A tu per tu con…Pietro Verna

di Alessandra Savino

Con un passato vissuto all’interno di band il cui repertorio spaziava dal rock, al rock and blues, al funky, che ha poi lasciato posto ad esperienze nel mondo del Musical, Pietro Verna rappresenta oggi una delle voci pugliesi del cantautorato italiano. Dopo la parentesi che lo ha visto in giro per locali insieme ai vari gruppi musicali di cui ha fatto parte, ha presto riconosciuto il valore e l’importanza della parte testuale, all’interno di una canzone, avvertendo l’esigenza di dedicare la propria attenzione a quella che viene definita ‘canzone d’autore’. Tuttavia, preferisce considerarsi un <<artigiano della musica e delle parole>>, piuttosto che un musicista o un cantautore. In questa intervista si racconta soffermandosi sul labile confine tra poesia e canzone, due generi letterari di cui Pietro è autore.

Quando hai preso in mano una chitarra per la prima volta?

All’età di quattordici anni; è iniziato tutto un po’ per gioco. A quei tempi frequentavo i Boyscout e c’erano due amici che già suonavano, uno la batteria e l’altro il basso. Per creare quindi un minimo organico che avesse senso, iniziai a prendere lezioni di chitarra. Poi, pian piano, è nata la passione per il canto; la scrittura, invece, mi ha sempre affascinato. Credo sia stata anche una sorta di trasmissione genetica, dato che mio padre negli anni ’70 era un musicista per diletto e si divertiva a suonare con amici. Fu lui a regalarmi la prima chitarra.

A quattordici anni che musica ascoltavi?

Con la band di cui ti parlavo ho iniziato a suonare rock anni ’70, artisti come i Pink Floyd o i Deep Purple. Ma penso che quello fosse più catalogabile come “sfogo adolescenziale”, tant’è che col passare degli anni ho avvertito sempre più il bisogno di scrivere qualcosa che mi assomigliasse e mi rappresentasse. Non a caso, ad un certo punto, ho lasciato le varie band con cui collaboravo, per intraprendere una strada da solista.

Ricordi il primo testo che hai scritto?

Sono passati tantissimi anni e non mi riconosco neanche più i quei primi esperimenti, come è giusto che sia. Forse il titolo del mio primo brano era “Noi siamo noi”. Scrivevo molto e a volte neanche terminavo i testi perché la voglia di raccontarmi entrava in conflitto con le esigenze strutturali, tematiche e musicali della band.

L’approdo al cantautorato quando è avvenuto?

Quando ho dedicato una tesi di laurea a Fabrizio De Andrè. Da allora è cambiato il mio approccio e il modo di concepire il testo di una canzone. Ho iniziato allora a convincermi che attraverso il testo di una canzone si potesse approdare ad una forma di catarsi, raccontando l’indicibile, e quindi ciò che in nessun’altra maniera sarebbe stato possibile fare per quanto mi riguarda.

Come nasce una canzone?

Nasce una sorta di rapporto amoroso, di incontro e scontro, ci si lascia, ci si ritrova. Io sono molto esigente e meticoloso con la scrittura, se anche una parola la ritengo decontestualizzata e forzata, il testo resta per me incompleto, non presentabile. Sono capace di attendere, anche per mesi, la parola giusta, desiderata e necessaria. Per quanto mi riguarda, ritengo sia più semplice partire dalla musica, perché questo ti permette di adattare i versi ad una sorta di impalcatura già definita. Una canzone può nascere in cinque minuti o in sette mesi, dipende da quanto urla quell’ispirazione.

Cosa è in grado di ispirarti?

Anche una sfumatura, un gesto irrilevante, una distrazione. Un anziano che legge sulla panchina di una villa, una stagione, un quadro. Mi piace scrivere non di atti plateali ed eroici, ma di piccole cose, di semplici sguardi; amo sviscerarli, analizzarli, accarezzarli con la scrittura per dare loro un’importanza ed un valore che meritano, ma che molto spesso non ricevono.

Pietro Verna

Hai un luogo in cui generalmente componi?

A volte mi capita di trovarmi nel luogo che considero “perfetto”, ma non ho la chitarra con me e quindi prendo solo appunti. Amo i posti silenziosi, il mare, i luoghi di periferia, le zone di campagna dove non ho disattenzioni e ho più possibilità di ascoltare quello che ho dentro. L’ispirazione però può abitare ovunque, anche su un treno, in una tabaccheria o in un autogrill. Quasi sempre scrivo nella mia stanza, in solitudine.

Cosa ti ha portato alla realizzazione del primo disco?

Il mio primo disco s’intitola “Ritratti”, è autoprodotto e risale al 2012. C’erano tanti brani che avevo scritto negli anni ed un forte desiderio di selezionare quelli che ritenessi più rappresentativi ed efficaci, per immortalarli su un disco, senza seguire un vero e proprio fil rouge. C’era solo l’esigenza di rendere pubblici i miei racconti musicali, portando a spasso un po’ di me e della mia vita.

Cosa è cambiato con il secondo disco, “A piedi nudi”?

Credo si possa parlare di una maggiore consapevolezza, di una differente concezione musicale e di una diversa visione della scrittura, pur rispettando i miei gusti e i miei ascolti. Così come cambia la vita e così come cambiano i modi di affrontare sentimenti, imprevisti e relazioni, allo stesso modo si evolvono gli approcci alla pagina bianca e alla composizione.

Quali musiche evocano i brani di “A piedi nudi”?

Mi piace molto la musica francese, mediterranea, ma anche il tango argentino. Mi sono affidato ad un arrangiatore molto bravo, un polistrumentista come Giovanni Chiapparino, e il modo di vestire questi brani è stato per me simbiotico, più che soddisfacente. I molteplici ascolti, i confronti, le sperimentazioni hanno creato un’ottima sinergia; l’idea di convogliare in un unico disco diversi generi, passando da un valzer ad una milonga, per esempio, è stata da subito condivisa e poi realizzata, creando – dal mio punto di vista – fascino e stupore.

Immagini che la gente possa ballare a piedi nudi ascoltando questo disco?

Concettualmente mi piace l’idea dei piedi nudi, perché è stato l’approccio con cui ho pensato e realizzato questo disco. I piedi nudi sono l’emblema del sacrificio, della tenacia, della sensualità, del rischio, di tutte quelle peculiarità che mi hanno portato a produrre questo lavoro. Sono dell’idea che si debba sempre camminare a piedi nudi, ma con la testa ai sogni.

Pietro Verna – © Domenico Donvito

Oltre alle canzoni, scrivi anche poesie…

Ho sempre letto poesie, e questa forma di scrittura mi stupisce molto. Il mio libro di poesie, “Mia”, è stato pubblicato nel 2017 e contiene versi che ho scritto e poi non ho musicato. Sentivo che quelle parole, così nude e semplici, avessero un corpo, un significato ed un suono, e non necessitassero di una musicalità forzata. Credo nella scrittura visiva, cinematografica, pittorica, quella in grado di evocare immagini e bellezze. Il mio umile esordio poetico si è mosso, sin dall’inizio, con questo spirito e in tale direzione.

Perché hai scelto il titolo “Mia”?

Io credo che l’uomo, per avvertire una qualche forma di salvezza e bellezza, debba sentirsi parte integrante di qualcos’altro, che possa essere un luogo preciso, un gesto, un particolare, uno sguardo. Allo stesso tempo, è necessario che anche dentro di sé maturi e custodisca un qualcosa che gli assomigli e nel quale si riconosca. In questo abitare qualcos’altro e lasciare che qualcos’altro ci abiti, è facile distinguere una complicità, un calore, una casa. “MIA” non rimanda quindi alla concezione, al significato del possesso, quanto a quello dell’appartenenza.

Come consigli ad un lettore di leggere le tue poesie?

Mi piacerebbe che lo facesse di fronte al mare, a settembre o a giugno, in quei mesi nostalgici, meno caotici. Il mare è un’immagine presente in molte poesie e canzoni. Vorrei che l’arte fosse apprezzata in luoghi bucolici, silenziosi, non contrastati dal fragore e dal traffico.

Parliamo del tuo ultimo disco…

Sto pensando ad un lavoro più spoglio rispetto a quello dei precedenti dischi, ma pur sempre comunicativo e intenso. Vorrei arrivasse in maniera più diretta e semplice il concetto testuale che racconto. Mi lascerò ispirare, oserò per certi versi. Ci metterò dentro ciò che ho ascoltato, vissuto e masticato in questi ultimi anni.

Quale ruolo pensi che abbia il cantautorato italiano?

Penso che il cantautorato italiano non morirà mai. Potrà vivere nelle cantine, negli spazi più angusti e tristi, nei piccoli club, fuori dalle statistiche, ma resisterà sempre. Incede con fatica, questo è certo, ma cammina con cognizione di causa, con passo lento e solido. Costruisce basi, da sempre. Rafforza i valori, fottendosene dei numeri. E sono fermamente convinto che il suo ruolo debba continuare ad essere quello di donare uno sguardo, un pensiero ed una voce alle comparse, in un mondo pieno di protagonisti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *