Romanzi a Puntate

“VITE SOSPESE”

di Annamaria Pazienza

Antonio Rizzelli, classe 1937, nato a Bitonto, provincia di Bari. Coniugato, capelli castani, occhi castani. Residenza: Via Matteotti 147, Bitonto. Dall’espressione del suo volto deve essere stato un grande lavoratore da ragazzo. Ha una coppola in testa, una camicia, evidentemente sgualcita e provata, a quadrettoni, di flanella probabilmente, e delle bretelle marroni, lo stesso marrone del suo copricapo. Ha una lieve ruga sul lato sinistro della bocca.

Avrà sorriso spesso Antonio e mai riso di gusto. Avrà avuto quei sorrisi di circostanza, quando nonostante le reni spaccate, le ossa dolenti per il troppo faticare e il non arrivare a fine giornata, il compaesano di turno ti incontra, ti ferma e ti chiede: <<We Tonino bello, com sciam?!>> – e l’unica cosa che può fuoriuscire dalle labbra, accompagnata da quella lieve espressione sinistroide, è la frase, anch’essa di circostanza: tutt bun! Oppure, quella stessa espressione che appare quando non ci si parla più con i propri amici ma ci si fa forza e si pensa tra sé e sé va tutto bene, quando un padre muore e va tutto bene, la madre è malata ma va tutto bene.

Va sempre tutto bene. Questa tra le mie mani è stata l’ultima carta di identità della giornata registrata nel fascicolo e archiviata in questo posto misero, con una mole enorme di polvere, con l’odore del legno tarlato che, a lungo andare, impregna le narici.
Le mie impronte digitali sono colme di sporco, i solchi e gli spacchi della mia pelle sono neri, la mia vista annebbiata leggermente a causa di un’allergia persistente.
Questa è l’ennesima vita che getto, letteralmente, nel cestino, dopo averla archiviata e passata accuratamente nel trita documenti dell’ufficio.
Da piccola, quando mi si chiedeva che cosa avessi mai voluto fare da grande, tutto avrei immaginato, tranne che questo impiego, in questo edificio, con queste persone e queste mansioni.

pag. 1

Avrei voluto fare l’astronauta – quanto diamine sono belle le stelle? – la cuoca, la veterinaria, la musicista…cambiavo sogno a seconda del mio umore o del tempo che c’era al di fuori della finestra della mia camera. Una volta ho persino sognato di voler fare il medico.
Impiegata comunale, meglio ancora, stagista comunale, se così si può chiamare la mia professione.
Ogni giorno mi sveglio di buon’ora, compio la mia solita dose di gesti meccanici (sono quasi paragonabile ai tourettici o agli ocd molte volte): una dozzina di stiracchiate, il cellulare sotto il cuscino che risuona per l’ennesima sveglia ignorata, lo scricchiolio dell’alluce destro e via, seduta sul letto, a contemplare per due minuti circa i possibili scenari della mia routine allarmante.

Poi mi metto in piedi, prima il destro, non sia mai tutto vada storto poiché ho messo prima il sinistro a terra, che già così non parliamo sicuramente di una vita comica, non mettiamoci anche l’alzarsi con il “piede sbagliato”, e poi via, verso la cucina.
L’odore del caffè mi ha sempre disturbata di prima mattina. Quando vivevo con mia madre odiavo svegliarmi con quell’odore. Molto atipica come cosa, ne sono consapevole. Da quando vivo da sola ho preso l’abitudine di fare il caffè nel pomeriggio – riesco a tollerarlo di più – e di metterlo in una piccola bottiglietta di vetro che ripongo nel frigorifero, pronta per il giorno dopo.

Prendo il caffè, la bottiglia del latte, la mia tazza, creo un caffè-latte gelido e lo metto nel microonde per un minuto circa. Lo so, è poco salutare, ma ormai non ne posso fare a meno, almeno ora che è inverno e le giornate sono così fredde.
Faccio la mia colazione poco salutare, una manciata di biscotti ad accompagnare il tutto, sparecchio, getto tutto nel lavello e mi dirigo nel bagno per prepararmi. Laverò le stoviglie al mio ritorno.
Fortunatamente non devo osservare particolari restrizioni sull’abbigliamento nelle mie ore lavorative.

pag.2

Dopo una doccia del tutto ragionevole, durata più o meno quindici minuti, infilo un intimo non troppo elaborato, perché tanto non ho un compagno a cui mostrarlo, metto su una felpa, un paio di jeans non troppo scomodi, mi lavo i denti, un filo di trucco e via. La mia macchina sgangherata rispecchia alla perfezione il mio stato d’animo. Piccola, ammaccata, molto spesso maltrattata dal mio piede sull’acceleratore che si dimentica la portata della cilindrata. Anzi, la sopravvaluta. All’interno regna lo stesso caos che regna nella mia testa e a pensarci bene è anche più ordinata. Metto in moto, ascolto un rumore che in realtà mi accompagna da un po’ di tempo ma che non ho ancora fatto controllare dal meccanico, metto su l’album di Paolo Nutini e sfreccio, ma con la calma che una 800 cilindrata rassicura, verso il Comune.
Penso e ripenso, in maniera del tutto assurda, a quella carta di identità avuta per le mani ieri. Ad un tratto sento una strana curiosità scorrermi tra le braccia.
Ripensandoci, stamattina venire al lavoro non è che mi crei tutto questo disturbo.
Parcheggio l’auto quasi vicino all’ingresso – oggi sono stata fortunata, non c’erano troppe macchine parcheggiate, di solito mi tocca fare il giro dell’isolato almeno due o tre volte – e salgo per le scale di marmo recandomi verso l’archivio.

– Buongiorno Valentina, ti va di bere un caffè? – lei è Carmen, impiegata nell’ufficio amministrativo, persona alquanto ordinaria, composta nel vestire, mai un capello fuori posto.

– Buongiorno Carmen, no ti ringrazio, ho già fatto colazione a casa. Magari più tardi ci fumiamo una sigaretta insieme. Devo correre in ufficio ora. Ci sentiamo dopo, magari mandami un messaggio quando sei libera e se lo sono anche io ti raggiungo volentieri.

Dopo aver lasciato la borsa a tracolla sulla sedia, borsa che ho consumato nel corso degli anni, ma alla quale sono affezionata da matti, mi reco subito al tavolo di legno misterioso – così lo chiamo io – e apro l’anta che cela una sorta di botola al di sotto. Nella botola sono allineate, in modo non troppo perfetto, tutte le carte di identità che devo revisionare una ad una e devo cestinare, controllando che il documento appartenga effettivamente ad una persona deceduta, o ad una persona che abbia già effettuato il rinnovo del documento stesso.

pag.3

Quindi io effettivamente ogni giorno ho a che fare con persone morte o addirittura vive ma di cui non ne conosco l’esistenza. Se mi va bene mi capita la carta di identità di qualche buono amico a cui invio una foto su what’s app ridendo del taglio di capelli buffo, dell’outfit improponibile o della montatura dell’occhiale retrò.
Qualche giorno fa, in effetti, mi capitò tra le mani la carta di Alessandro.
Alessandro è un mio carissimo amico, che non vive più a Bitonto per esigenze lavorative e si è trasferito al nord. Ho riso per un quarto d’ora, ininterrottamente, con lui, per il suo vecchio documento. Capelli lunghi, biondi, sbarbato, con occhiali orrendi e magro da far paura. Non riuscivo a respirare e lui nemmeno. Mi ha implorato di cancellare ogni traccia di quella foto, ma io non ce l’ho fatta, ho tenuto una copia sul telefono per poterlo ricattare a tempo debito. È troppo esilarante, a mio avviso, quella fotografia.

Oggi tra le mani invece mi è capitata lei: Maria Speranza.
Maria Speranza. Classe 1932. Nata a Bitonto. Coniugata.
Residenza: Via 4 Novembre, Bitonto.
Maria ha una camicetta bianca a pois neri, piccolissimi, con un colletto cinto da un merletto bianco. Un sorriso scontornato da un rossetto scuro, labbra sottili, non troppo, occhi chiari. Dalla foto in bianco e nero non capisco se sono verdi o azzurri. Ma sono chiari. Hanno troppa luce all’interno per essere scuri. Vorrei pensare siano verdi.
Maria secondo me è una donna curata, che tiene a sé, che ha cura dei propri figli, tre, e che cerca di far trovare ogni volta la cena a tavola a suo marito, medico importante del paese, generico, che torna sfinito con addosso l’odore del disinfettante.
Secondo me Maria ha bisogno di sentirsi amata un po’ di più da Giacomo – secondo me si chiama così – e ha deciso di infilarsi al disotto della gonna e della camicetta un intimo sensuale, non troppo per l’epoca, ma abbastanza da poter potenzialmente scaturire qualche emozione.
Chissà se il suo piano, negli anni 50, avrà effettivamente procurato dolci frutti.

pag.4

Adesso è venuta voglia di comprare intimo sexy anche a me. Non appena esco da lavoro mi recherò nel negozio di lingerie vicino casa, anche se, come ho pensato stamattina tra me e me, non ho nessuno a cui farlo vedere, non per ora, ma per lo meno mi serve per sentirmi un po’ più bella. Lo comprerò nero, di pizzo, non troppo volgare, mediamente provocante, estremamente seducente.

– Ma cosa ci fai imbambolata con quella carta d’identità in mano? Di sto passo non riuscirai a ripulire l’archivio nemmeno il mese prossimo! – lei è Laura, la responsabile d’archivio, una mente eccelsa, ma altrettanto eccelsa nell’essere “testa di cazzo”.

– Stavo pensando a quante vite buttate…

– Cosa? – mi dice con tono quasi schifato.

– Niente, dicevo non vedo l’ora che arrivi l’estate – che spreco a fare il mio tempo con un esemplare del genere, non è utile.
Riprendo il mio lavoro. Prima di gettare la vita di Maria ho uno strano impulso che parte dal gomito destro ed è incontrollabile. D’un tratto mi ritrovo con la fototessera di Maria in mano, staccata dai punti della spillatrice e dal cartoncino beige di fondo. Mi volto velocemente prima a sinistra e poi a destra, con un movimento lampo, quasi come ci fosse qualcuno alle mie calcagna e metto la fototessera nella tasca della felpa. La voglia di tenerla è inaspettata, ma voglio ricordarmi di Maria, di Giacomo, dei suoi tre figli, che forse non esistono, di quella vita così perfetta che ho
immaginato ad occhi aperti. Non credo neanche di aver commesso qualche infrazione alle regole d’ufficio. In fondo non ho rubato nulla. Quella foto sarebbe andata in brandelli. Ho evitato semplicemente ciò.
Esco a fumarmi una sigaretta, guardo il cellulare, sono le 11.15, un orario perfetto per effettuare una pausa. Nessuna notifica su what’s app. Carmen sarà ancora impegnata con le sue scartoffie.
Prendo il tabacco, una cartina e un filtro. Inizio l’assemblamento della mia sigaretta. Mi ricordo che una mia cara amica una volta mi ha detto: “C’è qualcosa di magico in chi fuma tabacco puro.

pag.5

È quasi come fosse un rituale e chi lo compie ha tutta l’attenzione concentrata sulla cartina”. Ho iniziato a vederla così solo dopo aver avuto quella piccola conversazione.
Non ho un accendino. Mi volto a vedere se c’è qualcuno che può accendere. C’è una ragazza appoggiata al muretto, sulla trentina. Ha gli occhi di un azzurro spaventoso. Di ghiaccio. Quasi ho paura a chiederle un accendino. Vedo la sigaretta tra le sue mani, sarà sicuramente una
fumatrice esperta. Ha quel fare disinvolto di chi nelle sigarette ha riposto tutte le proprie paure e le ha trasformate in sicurezza.

– Ciao, scusa, hai da accendere? – si gira, mi guarda mettendo la mano in tasca, prende l’accendino, si direziona verso di me, non me lo passa ma si avvicina, aziona la fiamma e accende la sigaretta. Ci troviamo una di fronte all’altra per due secondi circa, il tempo necessario per poter osservarla in maniera dettagliata da vicino. Ha proprio uno sguardo micidiale e micidiale è l’unico aggettivo in grado di descriverlo. – Ti ringrazio.

– Ciao, piacere, Aurora. – che strano, pensai, ha proprio un nome adatto a quegli occhi.

– Piacere mio, Valentina. Non ti ho mai vista qui, ci lavori?

– No in realtà no, ma lavoro al bar qui di fronte, ho fatto una consegna e ne ho approfittato per fumarmi una sigaretta. – ha la giacca quindi anche se avesse avuto sotto una divisa non si sarebbe mai vista.

Durante il tempo della sigaretta parliamo del più e meno, le chiedo se lavora soltanto, le mi dice che studia arte presso l’accademia e che ha bisogno di qualche extra per comprarsi il materiale adatto per dipingere.
È una perfezionista, una che non si accontenta, lo si vede lontano un miglio. Le dico che voglio vedere qualche suo lavoro e che l’arte mi ha sempre affascinato, anche se non so disegnare nemmeno un omino stile bambino di terza elementare, lei ride e mi chiede pressoché le stesse cose. Io ho molto meno da dire, la mia routine non lascia spazio a colpi di scena, ma riesco a slacciarmi in modo del tutto inaspettato dicendole che ho trovato la chiave
per tollerare il mio lavoro.

pag.6

– E quale sarebbe questa chiave? Parlamene. – non vorrei annoiarla e quindi con la testa accenno un lieve no. – Guarda che se te lo chiedo vuol dire che mi interessa davvero, non spreco curiosità a vuoto. – Mi convince, inizio a raccontare, in modo sintetico. Molto probabilmente mi prenderà per pazza.

– Ma è un a cosa stupenda! Hai mai pensato di scriverci su qualcosa? E posso illustrare una carta di identità, a mio modo ovviamente, su ogni fototessera che più ti piace? – no, non mi prende per pazza. In realtà, osservandola bene è un po’ al di fuori dagli schemi questa ragazza. Dico di sì con la testa, lei, euforica come una scolaretta l’ultimo giorno di scuola, guarda l’orologio (ha un orologio importante per essere una barista che studia arte, sarà sicuramente qualche regalo), ha un lieve sussulto, mi prende il telefono dalle mani, scrive qualcosa e scappa via voltandosi giusto un attimo per gridare:

– Chiamami, ne parliamo con calma stasera! Ora devo scappare.
Che ragazza singolare.
Torno a lavoro. Ho giusto il tempo di prendere un’altra carta dalla botola del tempo. Giuseppe Masellis. Classe 1990. Celibe. Professione: Studente.
Lui lo conosco, non c’è molto da dire. Abita nei pressi di Piazza Cattedrale, ha una schiera di donne che gli fanno la corte, è il cocco di papà e il bello di mammà. Alto 1,87. Gioca a calcio nel Bitonto. Capelli neri, occhi castani.
Non spreco neanche un secondo di più sulla sua tessera. È una vita buttata. Sono passati 5 anni dalla scadenza del documento, la sua vita è seriamente una vita buttata e posso azionare senza esitazioni il trita documenti e gettarla al suo interno. Tanto mica funziona come le bambole voodoo. Lì sarebbe sorto il problema, anche perché si sarebbe percepito il mio disappunto personale nei suoi confronti. Pesco altre tre carte dopo di questa. Nemmeno una ha suscitato particolare attenzione in me. Ho completato il registro, gettato le strisce di carta nel cestino sotto il tavolo misterioso, ho chiuso la botola magica e sistemato al meglio il mio piano da lavoro. Ho preso l’abitudine di passarmi una salvietta umida sulle mani prima di tornare a casa, il bagno è troppo lontano. Prendo la mia tracolla, infilo la giacca ed esco salutando tutti i miei colleghi.

pag.7

Prima di uscire dall’ingresso principale mi rullo un’altra sigaretta. Proprio mentre l’accendo mi ricordo di Aurora, dovevo salvare il suo numero, dovevo farlo prima ma poi mi è passato di mente. Le mando un messaggio. “Ciao Aurora, sono Valentina, la ragazza dell’archivio”. Un messaggio abbastanza sterile in verità, non sapevo cosa altro scrivere. Mi risponde subito. “Ciao Valentina, eccoti, aspettavo un tuo messaggio per poter salvare il tuo contatto. Ascolta, stasera ti va una pizza da me o da te? Ti va di raccontarmi delle tue fototessere? Ci sto pensando da tutta la mattinata. Mi hai incuriosito davvero tanto.”
Le rispondo che per me va bene e che può venire da me. Le lascio il mio indirizzo. “Ci vediamo alle 20.00”.
Prendo la macchina e mi dirigo verso casa. È un orario ragionevole, la gente è ancora in giro per fare spese e commissioni, il traffico moderato, ma scorrevole. Riesco a recarmi presso il negozio di intimo. Non è affatto tardi. Arrivo nei pressi del negozio. Questa volta parcheggio un po’ più distante, ma non esageratamente. Entro nel negozio e trovo subito quello che cercavo, trovo anche la taglia giusta. Di solito sono sempre indecisa quando si tratta di fare compere, ci impiego un po’ di tempo. Questa volta mi sono sentita molto sicura.
In realtà in questa mattinata mi sento quasi come la persona più sicura dell’universo. Riprendo la macchina e torno a casa. Preparerò qualcosa di leggero a pranzo, non voglio appesantirmi.

Dopo pranzo il pomeriggio mi sembrò passare velocemente, molto più del solito in realtà. Sono le 19 circa. Dovrei proprio buttarmi in doccia, altrimenti si fa tardi. Esco tutta bagnata, mi asciugo velocemente con l’accappatoio e continuo il rituale “di bellezza” non troppo sofisticato. Decido di mettere il completo intimo comprato questa mattina (appena tornata a casa l’ho lavato con acqua calda e ammorbidente, perché l’odore di nuovo mi disturba quasi più del caffè di prima mattina, e l’ho asciugato). Metto una camicia bianca e una gonna nera a pieghe, stile studentessa da college. Senza farci caso arrivano le 20.30 e a spaccare il secondo ci pensa il suono del citofono. Eccola è arrivata.

pag.8

– Ho portato le pizze! Spero vada bene una semplice margherita. Io ho preso una diavola, magari le dividiamo. – Aurora è euforica, ha un sorriso a trentadue denti ed entra dandomi un bacio sulla guancia quasi fossimo amiche da secoli.

– Ma buonasera anche a te, come stai? Hai trovato facilmente l’appartamento?

– Sì sì, è stato semplice. Sto bene, ma ho tanta fame e tanta voglia di ascoltarti. – è davvero curiosa. È l’unica cosa che riesco a pensare nei suoi confronti.
Ci mettiamo a tavola. Penso allo stile fantastico che ha.
Indossa una camicia con un colletto alla coreana, nera, con un inserto nella parte superiore di pizzo, nero anch’esso, e un paio di jeans grigio topo davvero fighi.
Mangiamo la pizza e come proposto da lei le dividiamo. Iniziamo a parlare delle carte di identità e delle sue illustrazioni. Il tempo scorre velocemente e quasi non lo percepisco più. Finita la pizza ci direzioniamo sul divano, aziono il giradischi con su un album di Otis Redding e abbasso il volume, in modo tale da creare un sottofondo piacevole. Aurora mi parla del progetto che ha, vuole creare un libro illustrato per bambini con le mie storie inventate.

– Ma io non sono una scrittrice, non ho mai scritto per nessuno. – lei aggrotta la fronte e alza il sopracciglio destro.

– Hai creato delle storie stupende, da quello che mi hai raccontato. Lo devi solo mettere su carta. Non c’è niente di diverso. Io penso ad illustrare. Dai ti prego. Non ho mai trovato nessuno con la tua testa e non mi trovo mai bene a parlare con le altre teste, non te lo so spiegare. – non credo serva spiegare, perché credo di sentire le stesse sensazioni. Per me è allucinante. Allucinante e assurdo. Non la conosco nemmeno.

– Va bene. Ci provo, ma non ti prometto niente.

– D’accordo, d’accordo. Allora io domani inizio ad illustrare Antonio il campagnolo. Ho già in mente tutto, vuoi sentire?

– No, no. Non dirmi nulla. Non voglio sentire nulla. Fammelo vedere presto, piuttosto. Sono curiosa di vederlo. Non si spiegano le opere d’arte.

– D’accordo, d’accordo. Va bene.

pag. 9

Dopo aver intavolato il progetto – in realtà credo verrà fuori una bomba – parliamo ancora del più e del meno. Le chiedo se ha un compagno, o simili. Mi dice che non ha voglia di dare importanza a rapporti vuoti, che in realtà non ha mai trovato nessuno affine ai suoi modi di pensare.
Mi guarda negli occhi, si ferma un secondo, e poi mi chiede pressoché le stesse cose. Troviamo molti punti in comune e quasi queste coincidenze mi destabilizzano, come i suoi occhi d’altronde e stranamente riesco anche a reggere lo sguardo.

– Vado un attimo in cucina, ti va qualcosa da bere? – le chiedo.

– Mmh…non saprei. Cosa potremmo bere?

– Ho di tutto, mi piacciono molto gli alcolici. Io credo prenderò del whiskey.

– Ma come, una ragazza come te, beve del whiskey? È da uomini, non credi?

– È un preconcetto comune. Mi piace il whiskey. Quando lo bevo mi sento in pace con me stessa. È come se mi disinfettasse i pensieri. Capisci? E mi ricorda cosa vuol dire avere una botta allo stomaco. Tu ne vuoi un po’?

– No, ti ringrazio. A me non piace proprio. Lo trovo molto forte come sapore. Preferire del vino. Hai del vino?

– Certo. Bianco o rosso?

– Bianco. Ma non è che mi rifili il vino della casa di qualche cantina di qualche nonno di paese?

– Nono – rido – è un ottimo vino. Fidati di me.

– Ci proverò. Ma come mai questa cultura sugli alcolici? Non è da tutti.

– In realtà non so risponderti. Una mia amica ha lavorato per tanti anni nel mondo del bartending e ascoltarla mentre parlava di bottiglie e prodotti ad un certo punto è diventato contagioso. Poi mi piace bere, il giusto si intende, quindi voglio capire cosa bevo.

Porto il calice e il mio bicchiere di whiskey. Parliamo e beviamo, alternando queste due azioni in un numero indefinito di volte. Ci troviamo a ridere molto. Anche arrivando alle lacrime e ai dolori all’addome. Poi parliamo di cose serie. Visto da un’altra prospettiva sembrerebbe quasi un appuntamento e forse inizio a vederla così anche dalla mia, stranamente, impacciatamente.

pag.10

Aurora si addormenta sul divano dopo pochi minuti. Prendo la coperta che ho sempre sullo schienale, a portata di mano, e la copro. Chissà quale sarà la sua vera storia. Se ha un passato scuro scuro dentro al ghiaccio dei suoi occhi, se ha mai sofferto per qualcosa o per qualcuno, se ha una storia ordinaria o incredibilmente straordinaria.
A guardarla così, così come guardo le mie fototessere, la trovo “sospesa”. Sospesa come le vite che ho tra le mani ogni giorno, sospesa senza nulla di certo, sospesa così come sospesa è la mia mano che sposta il ciuffo dei suoi capelli castani dalla fronte.
Si sveglia, mi prende per il polso e mi guarda.
Chissà cosa si prova ad essere sospesi? – Avevo pensato due secondi prima di quel gesto.
Ora so cosa significa.
Ora, sono io una vita sospesa…

pag.11

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